Maurizio Marchetti: Ciclismo e tabù

Maurizio Marchetti: Ciclismo e tabù
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Di Paola Cimaroli

Campioni si nasce: forza, vigore, passione, allenamento. Spesso non basta, però, e allora ci si aiuta. Ognuno a modo suo. Alcuni con una speciale formula magica, che contiene il lasciapassare tra l’anonimato e l’ingresso in quel mondo dorato, dove basta essere il migliore per conquistare la fama. Il ciclismo è così: se sei forte, vinci, se vinci vai avanti, se vai avanti trovi sponsor ed entri in un limbo ovattato. Ma quanto costa volerci entrare a tutti i costi? O al contrario, qual è il prezzo da pagare per essere un “campione senza artifici”? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Marchetti, ex ciclista professionista che sta portando avanti da diversi anni un’importante mission: la lotta all’utilizzo di sostanze dopanti.

Dove e quando inizia tutto? In Svizzera, dopo la seconda tappa di gara a Basilea, ci fu una riunione tra i massimi rappresentanti del ciclismo e un pool di medici. Questi ultimi volevano sottoporre tutti gli sportivi ad un controllo ematico preventivo. Calcolando che eravamo nel ’96, e che gli unici controlli antidoping erano effettuati tramite l’esame delle urine, si trattava di una novità importante. La maggior parte dei ciclisti non accettò, tant’è che cominciai ad avere dei forti dubbi sulla liceità dei loro comportamenti in gara. Dopo qualche mese la Gazzetta dello sport fece una campagna antidoping, titolando “Se il sangue è malato, fermiamoli”. Mi arrabbiai tantissimo e telefonai al giornale, dichiarando che ero pulito e che potevo provarlo, perché io a quel test mi sottoposi volontariamente. La stampa conclamò la veridicità delle mie dichiarazioni, ma al contrario dell’encomio che mi aspettavo di ricevere, il giorno successivo mi arrivò un telegramma dal CONI, che mi convocava immediatamente, pena la sospensione per sei mesi. Dopo quell’incontro e da quel giorno, nessuna squadra mi volle più, compresa la mia. Fui emarginato dall’ambiente sportivo. La tua carriera era stata stroncata di netto, come hai reagito a questa situazione paradossale? L’incredulità prima, la rabbia poi. Non riuscivo proprio a comprendere perché la mia presa di posizione, invece di incoraggiare alla trasparenza e al gareggiare pulito, aveva scoperchiato il vaso di Pandora. Ma non sono mai indietreggiato rispetto alla mia posizione. A distanza di tanti anni, in un momento storico dove il doping è pane quotidiano, mentre vecchie glorie cercano un po’ di fama rinnegando le loro scelte passate, io continuo la mia strada. Soprattutto per il fine ultimo che cerco di ottenere. L’avvicinarsi allo sport ciclistico, ma nel giusto modo? Esatto. Quello che rattrista, più di tutto, è che il numero di ragazzi che potenzialmente potremmo raggiungere, si sente demotivato a partecipare. Se i campioni sprintano ad una velocità doppia rispetto a quella normalmente supportata da un giovane atleta, “cosa gareggiamo a fare”, si chiedono, poiché “non ce la faremo mai”. Questo è il danno più grande che possiamo analizzare, al di là dell’etica sportiva, del gareggiare senza artifici o imbrogli, dell’onestà atletica. Maurizio Costanzo ti definì allora un “missionario”e da pochi mesi sono arrivati diversi riconoscimenti come il patrocinio del Ministero della Salute. Possiamo dire che i grandi campioni si vedono all’arrivo? Diverse testate giornalistiche, televisive o su carta stampata, hanno preso come esempio la mia storia. Dopo aver capito quale fosse la strada che potevo percorrere, ho iniziato ad organizzare dei seminari all’interno delle scuole. Ho coinvolto medici, psicologi, ho visitato diversi istituti. Nel frattempo mi sono documentato, ho preso la laurea in scienze motorie ed ho continuato a sensibilizzare le istituzioni, anche grazie all’appoggio di tante personalità che hanno creduto nel mio progetto. Ed è a questo punto che nasce l’idea di una maglia etica? L’iniziativa nasce dalla mia esperienza e grazie dell’Asd Sapientiae Motusque di Sezze. E’ senza dubbio un’idea innovativa: una maglia etica antidoping, che mira ad affiancarsi a quelle tradizionalmente in uso nel ciclismo quando ci si qualifica leader della classifica generale, miglior scalatore o miglior sprinter. Una maglia etica da mettere in palio nelle corse in linea e a tappe, o ai corridori che vincono uno speciale traguardo volante, il cui premio è un controllo antidoping cui sottoporsi. Quello stesso controllo da cui prima si scappava, che si guardava con timore. Quel controllo che adesso diventa un riconoscimento ambito, e la maglia etica, un segno distintivo da esibire con orgoglio. Dopo il debutto agonistico dell’iniziativa al 50° Giro della Valle d’Aosta nel luglio scorso, Marco Chianese, vincitore nella corsa valdostana della speciale classifica dei traguardi volanti, ha portato volentieri la sua testimonianza di corridore impegnato per

silvia_lambruschiun ciclismo pulito. So che siete stati evento seminariale lo scorso settembre nella città di Lorenzo il Magnifico e di Dante. Dopo tutti questi anni, stanno finalmente arrivando i riconoscimenti? La bontà del progetto a sostegno del ciclismo credibile ha conquistato una vetrina, di assoluto prestigio internazionale, nel corso dei mondiali di ciclismo 2013. Nel Rettorato dell’Università di Firenze durante la Notte dei Ricercatori, siamo stati parte integrante del seminario ”Parliamo di doping e sostanze dopanti”, Un progetto accademico di qualità e forte richiamo, in una settimana iridata che ha posto al centro della manifestazione, una battaglia d’interesse non soltanto sportivo. Ma non solo in Toscana abbiamo ricevuto accoglienza. L’idea della maglia etica è stata presentata a maggio al Memorial Bardelli di Pistoia, una delle più importanti manifestazioni italiane contro il doping. La maglia è stata promossa e indossata dal vincitore del Giro d’Italia, Vincenzo Nibali, e da Alfredo Martini, padre nobile del ciclismo italiano, che l’hanno sdoganata e lanciata verso la notorietà. E poi è stata adottata in gara al Giro della Valle D’Aosta, una delle più importanti corse a tappe per dilettanti d’Europa. Il 40 % dei giovani sportivi non sa se rinuncerebbe alla carriera sportiva, se fosse necessario assumere sostanze dopanti. Con quale parola riassumeresti i tuoi 15 anni di sensibilizzazione? Onestà. Vincere imbrogliando non è mai una vittoria. E le vittorie, aggiungiamo noi, se sono meritate, prima o poi arrivano. Grazie Maurizio, a nome del futuro del ciclismo, e non solo.


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