Per non dimenticare “Vortice” di Francesca Ulisse

Per non dimenticare “Vortice” di Francesca Ulisse
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La testimonianza di Francesca Ulisse, scrittrice e poetessa pontina, dopo la sua visita ad Auschwitz. Solo un momento del tempo…di quel tempo. Che le ha permesso di “vedere” quella terribile pagina di storia, di “sentire” quel freddo dell’anima disperato e disperante, di pregare e sperare che quel che lì avvenne non avvenga più.Volli “vedere” “quella storia”. Volli vedere “quei” luoghi nei quali esseri umani seppero dare sofferenze terribili ad altri esseri umani. Volli vedere, emozionarmi, soffrire e sperare “che non avvenga più” quel che lì avvenne. Questo il motivo del mio viaggio quel 3 agosto del 2009. Un viaggio che puoi fare anche tu e che, ne son certa, abiterà per sempre la tua anima. Lasciamo 7Cracovia alle ore 7 e 45 del 3 agosto del 2009 e, dopo aver percorso un largo e comodo tratto di superstrada, prendiamo una strada laterale alquanto stretta che mi dà la sensazione di una strada secondaria e “nascosta”. Una mia suggestione? Essa attraversa un bosco i cui alberi non so definire bene cosa siano, tanto essi appaiono scheletrici e malati. Potrebbero essere larici ma sono così malandati da anticipare già fin da ora la tristezza del luogo che stiamo andando a visitare. Anche le case che incontriamo lungo quella via appaiono povere. Sono case di campagna grigie e non curate, incomplete spesso nella costruzione. Mi ricordano le molte case costruite nei nostri paesi, nelle nostre campagne, in tempi differiti, un po’ per volta, stanza dopo stanza, piano dopo piano, “quando ci saranno i soldi”. Ci fermiamo ad un passaggio a livello per lasciar passare una littorina antidiluviana. Poi riprendiamo la nostra strada lungo la quale, adesso, si avvicendano ippocastani e, nei giardini delle case, abeti da giardino e alberi di mele. La strada si restringe ancora per poi allargarsi in un centro abitato: Libiaz, le cui case appaiono decisamente carine. Sembra un paesino vivibile. Un piccolo cimitero: piccole tombe, piccole croci. Una grande rotonda e, subito dopo, l’indicazione per Oswiecim: il luogo nel quale stiamo andando. Adesso la campagna è più aperta, la strada appare sempre più curata. Ancora bosco: querce questa volta, verdi, in buona salute. Ancora un paesino: Bobrek e, subito dopo, un ponte su un canale. Poche case. Il bosco è più lontano: tigli, querce, larici. Ecco Oswiecim e, a un Km circa, Auschwitz. Sono le 8 e 19. Siamo arrivati. E finalmente esce il sole in quel mattino un po’ nebuloso. Il sole…quasi ad affievolire tutto il dolore di Auschwitz. Fa già caldo ma io prendo dal borsone che lascerò sul pullman il golfino: per coprire il mio abito scollato, le mie braccia nude. Il luogo, quel luogo, deve essere rispettato anche con il modo di vestire. Mi guardo intorno. Su uno slargo molto ampio c’è una lunga costruzione rosso cupo sulla cui parete si aprono finestre tutte belle ordinate, sul cui tetto si affacciano degli abbaini. Sembra quasi un casolare. E’ lì che noi entreremo. Al centro dello slargo mi attrae una grande aiuola nella quale fanno mostra di sé degli alberi, che credo siano ontani, e due grossi salici. Qui, su un grande manifesto, leggo le prime informazioni. Aushwitz- Birkenau: simbolo di terrore luogo di genocidio e olocausto luogo di concentrazione di tre campi: Aushwitz 1, Aushwitz 2-Birkenau, Monowitz. Quest’ultimo, però, solo campo di lavoro per gomma sintetica. estensione dei campi: 40 kmq dal Child_survivors_of_Auschwitz1942 luogo di massiccia campagna di assassinio degli ebrei. Nel luglio del 1947 il parlamento vi stabilì il museo dei campi. Sono le 8 e 45. Aspettiamo la guida e, intanto, “mi preparo”. Mi tolgo gli occhiali: voglio vedere ad occhio nudo, senza schermo alcuno. Indosso il golfino: voglio rispettare quella sofferenza. Sono già commossa: sarà un’immersione nella sofferenza di “allora”. Cerco qualche oggetto di famiglia: “per farmi compagnia”. Un comportamento naturale per me quando debbo affrontare qualcosa di importante. Ho solo un berretto Bocconi (di Alessandro?). Lo indosso. Arriva la guida: un signore che si rivelerà non solo profondo conoscitore di quella storia ma, anche, comunicatore partecipe di essa. Mi dirà, poi, che è un insegnante di storia in pensione. Ci fornisce cuffie per l’ascolto. Potrà così parlare a bassa voce, “per non disturbare quel luogo di dolore”. Subito dopo entriamo all’interno della grande costruzione che appare un casolare, per uscire, dopo aver attraversato un largo corridoio, in un grande spiazzo. Da qui, oltre una larga cancellata, sono già visibili i blocchi del campo che sono, oggi, vere e proprie costruzioni in muratura e che, dall’esterno, non lasciano certo trapelare i terribili eventi lì avvenuti. Sul grande cancello di accesso una frase: il lavoro rende liberi. Non è la scritta autentica, rubata e poi restituita non si sa da chi, ma una copia di essa. Quella autentica è conservata altrove. Una farsa, una beffa la frase recitata. Poiché quello fu soltanto un luogo di trattamento brutale; un luogo nel quale, in quegli anni, furono già particolarmente terribili le condizioni climatiche. Le temperature, infatti, furono comprese tra i -35° / -30° di rigidissimi inverni e oltre i +40° di caldissime estati. Ci avviamo ai blocchi all’esterno dei quali la guida inizia il suo racconto. All’esterno, per non disturbare quel vissuto, per permetterci di sentire, dopo, all’interno di essi, in piena libertà, le sensazioni inevitabili da essi procurate . Così la guida: “I prigionieri furono liberati il 27 gennaio del ‘45 ad opera dei sovietici. Lo sterminio “industrializzato” era iniziato nel gennaio del ‘42 . A1 esisteva già prima del gennaio del ‘42 ma solo come complesso di caserme e come campo di concentramento per i polacchi della resistenza. Soltanto dal gennaio del ‘42 esso fu utilizzato come lager per gli ebrei e, quindi, adattato all’uopo. Qui solo una parte dei prigionieri fu registrata meticolosamente: padre Kolbe, ad esempio, che auschwitz-birkenau-1187890_960_720qui fu prigioniero politico e Vittoria Nenni che qui fu detenuta politica. La maggior parte di essi, invece, arrivò e morì in sordina, senza alcuna registrazione”. Intanto ai nostri sguardi si impone il primo grande monumento di quella strage: un’urna che domina il “nulla” di un grande stanzone vuoto. E’ l’urna che raccoglie ceneri di cadaveri bruciati all’aperto. Subito dopo, visitiamo la stanza che fu adibita a ufficio di stato civile, la farsa di un ufficio di stato civile, dove venivano registrati, se venivano registrati, gli ultimi arrivati. Ancora la guida: ”I prigionieri arrivavano ad A. spesso dopo un viaggio di giorni e settimane, nonostante il paese di provenienza non fosse lontano. Il 24 luglio del ‘44, ad esempio, da Lodi un gruppo di ebrei arrivò dopo un viaggio di una settimana. Un viaggio in cui dominarono fame e caldo.. Un altro gruppo partito dal Pireo il 6 di agosto arrivò il 16 di agosto. Anche per esso furono 10 giorni terribili di fame e caldo. Birkenau nacque, invece, già come campo base in questa vasta pianura nella quale vivevano rigogliosi i boschi di betulla (Birkenau, infatti, vuol dire luogo di betulle), alberi che furono tagliati per una superficie di 175 ettari di terreno a creare la zona Birkenau con, intorno ai campi, una vastissima zona di isolamento. Lo sterminio dei prigionieri fu una vera e propria industrializzazione di morte che permise di uccidere fino a 1200 persone per volta con le pillole di cianuro che, gettate all’interno delle stanze doccia attraverso i comignoli, si lasciavano agire per 20 minuti. Subito dopo, in una sorta di catena di montaggio, intervenivano le squadre speciali, ognuna con un proprio compito, per spostare i cadaveri, per spogliarli, per recuperare quanto utilizzabile: denti, capelli (per la cronaca i sovietici trovarono 7000 kg di capelli. Noi ne vedremo “soltanto” 2000), scarpe. Le squadre speciali ad entrare in azione per ultime erano quelle addette al trasporto ai forni crematori. Tutto il materiale in qualche modo utilizzabile veniva poi accumulato nei magazzini Kanada e, in un secondo momento, inviato in Germania”. Intanto procediamo. Siamo tutti silenziosi mentre, sotto i nostri occhi, sfilano foto, pagliericci, teche. In queste, in particolare, sono stati raccolti gli oggetti più svariati: tutti quelli che accompagnano la quotidianità. Che accompagnarono quella quotidianità. In una teca si sovrappongono valigie. Sono veramente tante. Leggo alcuni nomi: Klara Sar, Paul Kelbko. Leggo e penso. E rifletto. In altre teche sono state raccolte protesi, stampelle (come poterono quei poveri uomini fare quel viaggio?), spazzole, pennelli da barba, occhiali, scarpe da uomo, da donna, grattugie, bilance, brocche, gavette, capelli di ogni colore possibile, in tutte le fogge: corti, lisci, ricci, intrecciati. E’ la vita quella che scorre in quelle teche. La vita: case, famiglie, lavoro, voglia di vivere. Commovente, poi, molto commovente la teca dei bambini, nella quale fanno mostra di sé scarpette di grandezza diversa, vestitini che ancora conservano, seppur sbiaditi, i colori, bambole ancora belle nonostante gli anni trascorsi. Non si può non pensare, non commuoversi, non chiedersi: come è potuto succedere! Guardo le persone che condividono oggi con me questo viaggio e, in ogni volto, in ogni sguardo vedo riflessa la mia emozione. C’è silenzio. Ma quanto dice questo silenzio! Che una signora, che già tutti sappiamo strana, interrompe con una domanda alla guida: ma i capelli, prima di essere esposti sono stati disinfettati? Vorremmo picchiarla ma, forse, questa sua uscita riesce ad allentare un po’ la pressione. Racconta ancora la guida… “Sul braccio o sull’abito a righe veniva tatuato un numero. Diversi i colori: giallo per gli ebrei, nero per gli zingari e gli asociali in genere, rosso per i politici, verde per i delinquenti comuni, viola per i testimoni di Geova, rosa per gli omosessuali. I pagliericci furono sostituiti da letti a castello solo nell’ultimo periodo”. Intanto arriviamo al blocco della morte n° 14: quello di padre Kolbe, divenuto, dal 14 agosto del ‘41, n° 19. Qui padre Kolbe restò per 14 giorni nel bunker della fame con altri prigionieri. Sopravvisse. Fu ucciso con una puntura al fetinolo. Intanto si facevano esperimenti sui prigionieri. Sulle donne il ginecologo dottor Clauberg, sui gemelli il dottor Mengele: l’angelo della morte. Perché le donne tedesche potessero avere gemelli. Due sorelle italiane: le sorelle Pucci, si salvarono solo perché, l’una nata nel ‘37, l’altra nel ‘39, furono credute gemelle. Vivono ancora. Davanti a noi, ora, c’è il muro delle fucilazioni contro il quale, tutte nude, vennero spinte le vittime: prigionieri del campo, civili provenienti dalla Slesia, prigionieri della Gestapo. Tutte dopo il solito finto processo. Scendiamo nelle celle di buio: 7 mq per 30 – 40 persone. Disegni sulle pareti: graffi fatti con le unghie. Ci si sente sepolti. Forte è la voglia di uscire, di respirare all’aperto. Qui vennero ad inginocchiarsi G. Paolo II nel 1979, Benedetto XVI Nel 2006. Passiamo a visitare Birkenau, oggi Giginka. Non dimentichiamo che, quando la Polonia fu di nuovo dei polacchi, questi chiamarono le loro città con nomi polacchi. Birkenau dista da A1 tre Km circa. Esso fu costruito nel ‘41, utilizzando il materiale delle case requisite ai contadini e poi abbattute e, anche, i tronchi delle piante di betulla. La sua costruzione si rese necessaria quando A1 non fu più sufficiente. A Birkenau è rimasto poco a testimoniare tutto quello che lì avvenne poiché, quando arrivarono i russi, i nazisti cercarono di far scomparire le tracce dei loro misfatti. In particolare, prima della fuga, furono fatti saltare i forni crematori. Quel che rimane, e che noi vediamo, sono i servizi igienici, strani servizi igienici a dire il vero, che però i russi predisposero per se stessi. Fino ad allora, non c’erano state né acqua né fogne. Con conseguente dissenteria, sporco, topi, tifo petecchiale. Resta ancora, e noi lo vediamo, un forno crematorio presso il quale sono ancora visibili le rotaie di un treno. Perché gli assassinii perpetrati in quel luogo erano ormai così industrializzati che i treni di deportazione arrivavano ai forni direttamente da quella che fu chiamata “rampa degli ebrei”. Rampa che Primo Levi descrive in “ Se questo è un uomo” Eppure, da Birkenau, un piccolo gruppo di prigionieri riuscì a fuggire attraverso i magazzini. Quattro di essi non furono ripresi e divennero, così, la testimonianza viva di quello che lì era avvenuto. Le truppe sovietiche arrivarono il 27 gennaio del ‘45. Dal 1996 quel giorno, il 27 gennaio, è il giorno della memoria. Per non dimenticare. Io non dimenticherò mai.

VORTICE di Francesca Ulisse

Tra cristalli trasparenti
“a memoria” occhiali scarpe valigie capelli
“a memoria” bambole scarpine tutine …
“a memoria” di sogni sguardi tenerezze cammini
un vortice i miei pensieri
ove si accendono occhi volti voci
sorrisi negati respiri affannosi
un vortice ove vivono vite perdute
ho “fame”
di aria ho fame
di sole
di luce
sono ad Aushwitz oggi
umano il mio grido
ma tu tu dove guardasti allora
mio Dio?


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